l’occupazione femminile nel tessile-abbigliamento italiano
Il livello di partecipazione femminile al mercato del lavoro è – secondo l’Onu – indice di sviluppo di un Paese (IV Rapporto Onu sullo sviluppo umano); partendo da questa tesi, va evidenziato che in Italia, negli ultimi 20 anni, si è assistito ad un deciso cambiamento della partecipazione femminile al mercato del lavoro, con un aumento delle occupate di circa 1 milione e 700 mila unità, passando da 7,6 del 1993 a 9,3 milioni 2013, un risultato di particolare rilievo se messo in relazione alla dinamica dell’occupazione maschile che invece nello stesso periodo è diminuita di circa 40.000 unità.
Ma se l’aumento in valori assoluti dell’occupazione femminile in Italia è indubbiamente una buona notizia, la comparazione con la media europea conferma che in Italia il problema dello svantaggio di genere è ancora irrisolto. In Italia l’occupazione femminile, nel 2013 è infatti ferma al 46,5% contro una media Ue (27) del 62,6%. Il nostro paese, nonostante il cambiamento di direzione, resta uno dei paesi con il più basso tasso di occupazione femminile, a fare peggio sono solo la Grecia e Malta.
A sostanziare ancora di più questo ritardo dell’Italia sul fenomeno dei differenziali di genere sono anche i dati sulle caratteristiche dell’occupazione. Quello che appare evidente è infatti che la progressione registrata negli ultimi 20 anni riguarda quasi esclusivamente il Nord, e che i nuovi posti di lavoro siano prevalentemente di bassa qualità per posizione professionale e reddito, e questo si nota ancora di più se messo in relazione alle condizioni di istruzione.
In ogni modo, pur in un quadro di luci ed ombre, dove alle dinamiche positive non corrispondono performance altrettanto soddisfacenti sul piano della qualità del lavoro e sul piano della diffusione geografica della crescita, non è meno importante per comprendere l’evoluzione del fenomeno, rilevare che – delimitando l’analisi all’ultimo quinquennio – i dati confermano che nel periodo della crisi l’occupazione femminile sembra aver tenuto molto più rispetto a quella maschile: infatti, il calo dell’occupazione è quasi esclusivamente maschile e il tasso di occupazione nel periodo che va dal 2008 al 2013 scende dello -0,7% per la coorte delle donne mentre si riduce di 6 punti percentuali tra gli uomini.
I tassi di attività mostrano al contrario una crescita del 2% nel periodo considerato per la componente femminile ed una riduzione dell’1% per la componente maschile, mettendo in evidenza come la crisi abbia in parte comportato la necessità per le donne di rimettersi sul mercato del lavoro, per compensare anche la perdita di lavoro degli uomini. Infine, i tassi di disoccupazione che nel periodo di crisi registrano una crescita per il totale della forza lavoro, mostrano un aumento più consistente per la componente maschile (+6%), passando dal 5,5% del 2008 al 11,5% del 2013, rispetto alla componente femminile che vede un aumento del tasso di disoccupazione di 4,6%, passando dal 8,5% del 2008 al 13,1% del 2013.
Insomma le donne sembrano essere state le meno colpite dalla crisi, e tra le principali motivazioni alla base di questo risultato ci sono: una riforma del sistema pensionistico che ha spinto il tasso di occupazione delle donne ultra cinquantenni; la continua crescita, anche durante la crisi, dell’occupazione femminile straniera nei servizi alle famiglie, a fronte di un calo sempre più sostenuto della spesa sociale (Istat, 2014); una revisione forzata dei ruoli familiari, che ha portato ad un costante aumento del peso del lavoro delle donne all’interno di una strategia familiare messa in atto in risposta alla perdita di lavoro dei capifamiglia.
Va poi sottolineato che la tenuta dell’occupazione femminile è trainata dal terziario che ha più che compensa un arretramento della presenza delle donne nei settori dell’industria, dove la perdita invece è stata superire a quella maschile, confermando ancora una volta il dato l’Istat secondo il quale il rischio di perdita di occupazione nell’industria – a parità di ogni altra condizione – per una donna è superiore del 40% rispetto a un uomo (Istat, 2012).
Ovviamente, il miglioramento della condizione femminile ha comportato una riduzione del divario di genere nei tassi di disoccupazione e di partecipazione attiva al mercato del lavoro, che però continuano ad essere maggiormente favorevoli per gli uomini.
Tornando sul tema della contraddizione tra crescita dell’occupazione femminile e qualità del lavoro, un esercizio utile è certamente la lettura comparata rispetto alla variabile professionale. Accedendo a questo piano di analisi si scopre che: per spiegare il 50% dell’occupazione occorrono 51 professioni per gli uomini e solo 18 per le donne e che dal 2008 l’occupazione femminile nelle professioni non qualificate è aumentata a ritmi più che doppi rispetto a quanto avvenuto per gli uomini; insomma negli anni della crisi è aumenta l’indice di segregazione con un rafforzamento della presenza delle donne nelle professioni già fortemente femminilizzate (servizi sanitari e alle famiglie, lavori di ufficio); infine durante la crisi assumono una
connotazione sempre più al maschile sia la professione di imprenditore che quella relativa ai dirigenti d’impresa. A tutto questo si associa una situazione in cui è più elevata la quota di donne che possiede un titolo di studio superiore ed universitario. Quindi, proprio le donne che tradizionalmente, nel nostro paese, hanno sempre investito di più in formazione, poi non riescono a trovare lavori adeguati all’investimento fatto.
A rafforzare questo quadro delle contraddizioni c’è ovviamente il dato sul pay gap, il divario di reddito tra uomini e donne al lavoro che ancora oggi, non solo per effetto di una crescita occupazionale femminile di bassa qualità, continua a persistere. Oggi, infatti, a parità di altre condizioni, in media la retribuzione oraria delle donne è dell’11,5% inferiore rispetto a quella degli uomini.
Un altro elemento di interesse è certamente quello della dinamica e del peso nella corte delle donne nei contratti atipici. Tipologia contrattuale questa, che durante il lungo periodo della crisi, pur registrando momenti di crescita (i dati mostrano che tra il 2010 e il 2012 al calo dell’occupazione standard si è contrapposta la crescita dell’occupazione atipica sia dei contratti a termine che dei collaboratori), descrive nel complesso un decremento di circa 175mila unità nel quinquennio 2008-2013 (-6,4%). Una diminuzione che ha coinvolto soprattutto le donne.
L’unica forma di lavoro che continua a crescere è il lavoro a tempo parziale, che aumenta rispetto al 2008 del 43% tra gli uomini (pari a 226 mila unità) e del 16,8% tra le donne (+346 mila unità). Una crescita che però i dati attribuiscono più ad una strategia messa in campo dalle aziende per far fronte alla crisi (l’incidenza della componente involontaria arriva nel 2013 al 71,5% tra gli uomini e al 58,1% tra le donne, rispetto al 35% per gli uomini e al 25,5% per le donne nella Ue28) e meno a ragioni di scelta funzionale alla conciliazione tra famiglia e lavoro.
Quanto sin qui riportato spiega in modo inequivocabile l’analisi del Fondo Monetario Internazionale secondo cui l’Italia resta uno dei paesi della zona Euro che incoraggia meno la partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Un cambiamento di rotta, sempre secondo lo stesso istituto, potrebbe avere importanti effetti benefici sulla produzione di reddito aggiuntivo e, quindi, sull’uscita da un periodo di stagnazione. Tale considerazione viene supportata anche dal rapporto Ocse del 2012 “Closing the gender Gap” in cui si dimostra che la maggiore partecipazione femminile in tutti i paesi Ocse comporterebbe degli effetti incoraggianti sul Pil: “se per il 2030 la partecipazione femminile al lavoro raggiungesse i livelli maschili, si avrebbe una crescita del Pil pro-capite del 12% in 20 anni, pari a 0,6 punti percentuali all’anno”.
Esistono quindi dei chiari svantaggi strutturali nella partecipazione femminile al mercato del lavoro che, nonostante la performance di crescita nel numero di donne attive, non solo continuano a non essere risolti ma in alcuni casi sembrano essersi aggravati.
Questi elementi assumono una evidenza inequivocabile quando entriamo nel merito: del gap di genere rispetto alle retribuzione, del differenziale di peso delle forme contrattuali atipiche, della segmentazione professionale e settoriale; della correlazione tra condizioni familiari e lavoro e sistema di welfare. Relativamente a quest’ultimo punto, va evidenziato che l’indice che misura l’asimmetria all’interno della coppia nella distribuzione delle ore per le responsabilità familiari resta in Italia molto alto indipendentemente dal tipo di occupazione. Il lavoro domestico e di cura pesa prevalentemente sulle donne e i carichi da sostenere tendono ad aumentare. Al contempo le risorse pubbliche destinate all’erogazione di servizi sono sempre più scarse.
Infine, sempre su questo fronte, appare interessante osservare il fenomeno delle interruzioni del lavoro per motivi familiari, diventato strutturale nel nostro Paese, e che porta ancora troppe donne a lasciare il lavoro in seguito alla maternità, seppur non per scelta ma perché messe in condizione di farlo. Riportando ancora una volta i dati Istat, relativamente al monitoraggio della partecipazione al mercato del lavoro delle neo madri, emerge infatti che le donne che hanno partorito nel periodo 2009-2010 all’inizio della gravidanza erano occupate per il 64,7%, due anni dopo si dichiarano occupate per il 53,6%. Tra le donne che hanno interrotto il lavoro, circa la metà dichiara di averlo perso per licenziamento, contratto scaduto (e non rinnovato). L’altra metà delle neomadri che non lavorano più dichiara di essersi spontaneamente licenziata (erano il 68,1%, nel 2005), di queste il 67,1% dichiara di averlo fatto per problemi di conciliazione dei ruoli, mentre il 13,5% per insoddisfazione verso il proprio lavoro, in termini di mansione o retribuzione (Istat 2012).
In de nitiva tra gli ostacoli all’inserimento femminile nel mercato del lavoro, come moltissima letteratura mostra, ci sono quelli di conciliazione dei tempi di vita in carenza di un sistema di welfare.
Partendo da tali considerazioni, il lavoro che qui si propone proverà ad indagare le trasformazioni dell’occupazione femminile all’interno del settore industriale TAC, che come noto rappresenta uno dei settori industriali a più alta presenza femminile, analizzandone le tendenze e le trasformazioni più recenti e focalizzando l’attenzione sui principali effetti della crisi.
L’evoluzione dell’occupazione femminile verrà analizzata osservando le principali caratteristiche, dalla composizione per età ai livelli d’istruzione, dalla posizione professionale, alle differenze retributive, delle donne impiegate in questo settore.
Il lavoro si concentrerà poi sul tentativo di analizzare in prospettiva comparata l’occupazione femminile del settore all’interno dei paesi dell’Ue che esprimono una particolare vocazione nel settore del tessile abbigliamento.
Infine si procederà ad un breve affondo sulla diffusione dell’imprenditoria femminile e sulle figure apicali presenti nel settore.
l’occupazione femminile nel tessile-abbigliamento italiano
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