La terziarizzazione del lavoro nero

Il fenomeno del lavoro nero e irregolare rappresenta uno degli elementi distorsivi più evidenti del mercato del lavoro nazionale, anche in ragione delle conseguenze economiche e sociali che ad esso si accompagnano, soprattutto in alcuni settori produttivi e con riferimento ad alcune aree del Paese. Solo alla fine degli anni novanta in molti tra studiosi e policy maker hanno cominciato in Italia ad aderire alla tesi secondo cui un ammodernamento del sistema produttivo, così come del relativo mercato del lavoro, non può prescindere dal superamento delle forme di irregolarità del lavoro e di evasione delle norme sulla sicurezza. Grazie anche al contributo interpretativo dell’Unione Europea si è assistito in quegli anni ad un passaggio da una logica dell’irregolarità come condizione che, in contesti arretrati o in fasi embrionali dello sviluppo, possa contribuire a rendere più agevole un processo di consolidamento nella direzione di un’economia più strutturata e capace di rispettare le regole, a quella di una irregolarità che invece scoraggia la capacità imprenditoriale e, allo stesso tempo, ostacola lo sviluppo di valori sociali, di competenze tecniche, di cultura tecnologica o di rispetto per l’ambiente. Non solo quindi motivazioni sociali ed etiche si opporrebbero alla cultura della irregolarità, ma anche motivi di opportunità economica, tali da pregiudicare un modello di sviluppo europeo centrato su elevati standard di qualità imprenditoriale e un solido sistema di welfare in grado di garantire una base di equità sociale per tutti i cittadini. In altre parole, prevale la tesi per cui l’irregolarità nei rapporti di lavoro produce tendenze negative per il sistema economico, perché favorisce la concorrenza sleale tra le imprese anche nella forma del dumping sociale. Inoltre, l’irregolarità innesca processi di emarginazione che portano a una riduzione e un depauperamento del capitale umano. Basti pensare che i lavoratori del sommerso, che risultano ufficialmente inattivi, perdono tutti i benefici derivanti da un contratto di lavoro formale, tra cui la formazione e un profilo specifico della carriera, elementi questi che allontanano sempre di più dalla possibilità di rientrare nel circuito della regolarità.

Non può sfuggire, inoltre, la preoccupante correlazione tra lavoro irregolare ed infortuni, non sempre esplicita nelle statistiche, che rivela come al fenomeno si associ una maggiore condizione di insicurezza. Altrettanto evidente è la correlazione con l’evasione delle norme ambientali. Per di più l’irregolarità nel lavoro incoraggia nella società la tendenza ad ignorare le regole del vivere civile producendo in questo modo una diminuzione della più generale cultura della legalità. Il lavoro sommerso sottrae anche gettito fiscale e contributivo al Paese, erodendo in primo luogo il finanziamento dei servizi sociali e per questa via il livello di protezione sociale delle persone, che significa anche la perdita di credibilità e fiducia verso i sistemi di sicurezza sociale.

In questa prospettiva di acquisito riconoscimento della sua pericolosità sociale, il sommerso, per i numeri che verranno proposti nelle prossime pagine, deve inevitabilmente tornare ad assumere una sua centralità, all’interno di un più generale obiettivo di riavvicinamento del Mezzogiorno ai livelli di reddito e di qualità della vita raggiunti dalle Regioni del Centro-Nord.

A questo proposito, analizzando la serie storica del fenomeno elaborata dall’Istat, emerge chiaramente un quadro del mercato del lavoro che, da troppi anni, convive con un problema sostanzialmente stabile di irregolarità diffusa. Nonostante brevi fasi di inversione di tendenza, ciò che prevale è infatti una situazione di presenza strutturale del lavoro irregolare che si attesta da circa due decenni intorno alla soglia di 3 milioni di unità di lavoro (Ula), ossia circa il 12% del totale degli occupati, con tassi di irregolarità passati dal 12,9% del 1990 all’12,2% del 2009, senza eccessive variazioni nel periodo.

Oltre al profilo strutturale del sommerso, sempre le statistiche ufficiali ci consegnano una fotografia di un fenomeno che combina un tratto generale di diffusione su tutto il territorio nazionale che però prende forma dalla combinazione di situazioni geografico/settoriali molto eterogenee.
All’interno di questa configurazione, il settore dei servizi è indubbiamente un’area di analisi di straordinario interesse, non solo per livelli di diffusione (l’Istat nel 2009 ha stimato 2.246mila Unità di lavoro irregolari, che corrispondono al 76% dei lavoratori irregolari presenti in Italia), ma anche per i rilevanti mutamenti che sta registrando rispetto a forme di irregolarità e coorti di lavoratori.

A questo proposito, sono già oggi molte le indagini sul tema che hanno sottolineato (Isfol 2008, 2007, Ministero del Lavoro 2005, OCSE 2005, Istat 2004), un processo di terziarizzazione del fenomeno che sta interessando, rispetto al passato, tutti i comparti, da quelli tradizionali a quelli ad alto contenuto di conoscenza, pur con dimensioni quali -quantitative diverse.

A spiegare questo “processo di terziarizzazione” del fenomeno e di allargamento delle forme di irregolarità contribuisce in modo determinante un cambiamento organizzativo che alimenta una progressiva scomposizione delle filiere produttive e una parcellizzazione del lavoro che ha spinto verso l’introduzione sempre più estesa di forme individuali di occupazione; tipologia di lavoro, quest’ultima, che ha generato una rilevante crescita dell’irregolarità nella forma della sotto-dichiarazione di ore o giornate di lavoro e nella forma della più complessiva simulazione di contratto, che si realizza attraverso contratti di collaborazione o IVA, che però per il basso livello di autonomia, numerosità dei committenti e sede di lavoro, configurano un vero e proprio rapporto di subordinazione.

Questo stesso processo di terziarizzazione è ovviamene anche alla base di importanti cambiamenti nello schema interpretativo del fenomeno che possono essere sintetizzati su due punti cardine: il primo, un vincolo sempre più esplicito di superare una lettura che associa la diffusione e dinamica dell’irregolarità principalmente ad un trade-off della globalizzazione, per accedere ad una ipotesi interpretativa che fa leva su un problema di deficit di cultura della legalità e di sistema produttivo che soffre di una larga presenza di imprese marginali per dimensioni, assetto organizzativo, dotazione di capitale, competenze professionali e scelte di business; il secondo, da collegare all’ampiezza del sistema dei servizi coinvolto (da quelli tradizionali a quelli avanzati), è quello di un obbligo da cui non ci si può sottrarre alla rappresentazione di un fenomeno, che più di prima, non solo mette a rischio l’inclusione sociale di giovani, donne e soggetti più deboli (immigrati, chi ha perso il posto di lavoro o è in CIG, senza prospettive di rientro reali e ha ormai un’età matura), ma innesca anche un declino sociale ed economico generalizzato, che non risparmia quei segmenti del lavoro più forte su cui nelle economie avanzate si costruisce l’ossatura dello sviluppo.

La terziarizzazione del sommerso

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